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Deus ex machina

Un nuovo Mondo

di Mauro Spalletti

Quel giorno l'oceano era particolarmente calmo, ed i suoi riflessi color zaffiro avrebbero potuto incantare i passeggeri, se solo si fosse trattato di un viaggio di piacere. Ma per Waya non era così. Nel Deserto dei Lamenti, ove era nato e vissuto fino a poco prima, non era affatto semplice vivere - o come preferiva dire, sopravvivere. Giorno dopo giorno i nordan venivano vessati dai capricci di Ssheno, dai predoni, dai micidiali scorpioni giganti, dalla fame e soprattutto dal sole, l'ardente globo di fuoco che aveva fatto guadagnare al continente il nome di Torrida, tanto solerte il suo occhio puntava su quella terra. Ma i nordan sono in grado di tirare avanti anche in un ambiente del genere, o almeno ci riescono quelli che non muoiono nel tentativo. E Waya non era da meno. Protetto dalla veste da traversata tipica della sua gente, ben più di una volta era riuscito a solcare l'immensa distesa di sabbia e pietrisco incandescente. Ma i suoi desideri erano ben lungi dal condurre quel tipo di esistenza. Voleva fuggire a tutti i costi da quella vita, da quella terra, dall'insopportabile disagio delle vesti da traversata... e non appena venne a sapere della Arstein, l'immensa nave di ferro che periodicamente salpava alla volta della Llumia, iniziò con enormi sacrifici ad accumulare il denaro necessario al viaggio. Ed ora che quella maledetta nave era riuscito a prenderla, si rese conto che i sacrifici non erano per nulla terminati, e se è vero che la vita di nomade del deserto lo ripugni, è ancor più vero che quella di mozzo la detesti.

Fin dai primi giorni ebbe a che fare con un noiosissimo mal di mare, un disagio che lo colse del tutto alla sprovvista. Nardal, il capitano della Arstein, tuttavia non fu affatto impietosito dai malesseri accusati dal nostro, e lo assegnò come consuetudine della nave a mansioni indicate ad un uomo di scarse competenze ma grande prestanza fisica. Una descrizione che si adatta benissimo a Waya, e che magari in un certo qual modo l'avrebbe reso orgoglioso, ma quando si gonfiarono sulle sue mani le prime vesciche, e quando queste scoppiarono, e quando presero a sanguinare, iniziò a maledire ed odiare il capitano Nardal con tutto sé stesso, ed intimamente a meditare su come fargliela pagare...

Nella sua stessa situazione erano in molti, ma solo uno lo stupì a tal punto da meritarsi il suo rispetto. La parola persona probabilmente non è quella che avrebbe usato allora, tanto strano parve ai suoi occhi quell'individuo. Apparteneva ad una razza chiamata older, così apprese in seguito. Lo vedeva sovente contemplare l'orizzonte, a poppa il mattino e a prua la sera, le braccia conserte ed una solennità tale che nemmeno il capitano osava ordinargli di tornare alle mansioni assegnategli. I suoi muscoli erano d'acciaio e ben scolpiti sulla sua figura, eppure la sua statura era sì ragguardevole da farlo sembrare addirittura esile, se scorto da distanza. Gli altri uomini che si affaccendavano nei suoi pressi davano l'impressione, in confronto a lui, di sgraziati e goffi ragazzotti brulicanti, e perfino Waya, che vantava una statura molto superiore alla media, raggiungeva a malapena la sua spalla. Aveva capelli lisci e fluenti, del colore del ghiaccio che si scioglie a primavera, ed erano pettinati all'indietro e trattenuti da una bandana. La carnagione era chiara, della tonalità dei germogli di palma da dattero illuminati dal sole, e le braccia erano istoriate da innumerevoli tatuaggi rituali, parte di intricati e bizzarri simboli dal significato oscuro. Ma la caratteristica più inquietante erano gli occhi di quel gigante. Incastonate un due smeraldi perfetti trovavano luogo le pupille, simili sia per la forma che per la riverenza suscitata a quelle di una tigre la cui pericolosità non viene diminuita dagli appetiti appagati.

Si chiamava Rafarg, o almeno così lo chiamava il capitano Nardal. Non l'aveva mai sentito parlare né lamentarsi in nessuna situazione, ma sapeva che non era muto, e per di più, a differenza sua, comprendeva bene il Labeno. Il modo in cui evitava ogni discorso e liquidava gli interlocutori con i suoi occhi minacciosi fece sorgere in Waya una sorta di stima nei confronti dell'older, anche se questi sembrava non se ne curasse o non se ne rendesse conto.

Erano passate due settimane dalla partenza dal porto di Nishandar, e da quel che aveva potuto capire il viaggio stava volgendo al termine, e per questa ragione l'umore dell'equipaggio, e maggiormente quello dei passeggeri, era insolitamente alto. L'unico a non aver l'aria di essere allegro era il capitano Nardal. E Rafarg, naturalmente, impassibile come sempre e refrattario a qualsiasi emozione.

Nardal sentiva qualcosa nell'aria. Non un rumore, un odore o uno spirare particolare del vento... niente di così materiale. Una sensazione che si percepisce a prescindere dai sensi, e che si impara a comprendere solo con innumerevoli anni di esperienza. Fu a causa di questa sensazione che decise di virare a Nord, anche se questo avrebbe significato allungare il viaggio di qualche giorno. Ma la decisione del capitano giunse troppo tardi. Seppur in assenza di vento, l'acqua prese ad incresparsi ed il mare si gonfiò. E mentre l'equipaggio era forsennatamente intento a governare la nave, una montagna d'acqua si innalzò dinanzi all'imbarcazione, e ne emerse un enorme, mostruosa creatura. Era l'essere vivente più grande che Waya avesse mai visto, lungo almeno metà della Arstein, sembrava l'incubo di una mente deviata, simile ad una contorta corruzione di ciò che originariamente sarebbe potuto essere un calamaro. Troppo stupida per capire non si trattasse di cibo commestibile, o troppo malvagia per lasciare integra qualsiasi cosa si muova di volontà propria, si avventò sulla Arstein. La nave iniziò a rollare pericolosamente, ma il capitano aveva già messo mano alle fiocine e stava bersagliando la creatura. Molti membri dell'equipaggio seguirono l'esempio del capitano, ma l'aberrazione non sembrò risentirne troppo, ed anzi vibrò un colpo con uno dei suoi enormi tentacoli lacerando ed uccidendo alcuni marinai e buttandone in acqua altri. Waya, atterrito, si rese conto che la sua abilità con la spada a nulla gli sarebbe valsa in quell'occasione. Prese a cercare un arpione da lanciare alla mostruosità, quando vide Rafarg, ritto e impassibile, nei pressi del fumaiolo anteriore della Arstein. Aveva in mano un arco, lungo quasi due metri, costruito a partire da un unico osso di una qualche enorme creatura sconosciuta al nordan. Era periziosamente intarsiato di simboli e di raffigurazioni, che andavano a raccordarsi perfettamente ai tatuaggi della mano, creando l'illusione di un tutt'uno tra l'arma ed il braccio dell'older. Con espressione di profonda concentrazione incoccò una freccia, pure questa d'osso, e tese la corda con uno sforzo percepibile solo dal guizzare e dal gonfiarsi dei muscoli di braccio ed avambraccio. Restò immobile alcuni secondi, indi, senza movimento apparente, la freccia fu scoccata, e fischiando scomparve nel corpo gelatinoso della creatura. Ci fu un grido simile ad un mugghiare subacqueo, e mostruosi tentacoli sferzarono ovunque prima di ritrarsi sul corpo del calamaro, che si inabissò rapidamente, e per sempre. Come dopo aver compiuto l'azione più naturale del mondo, l'arciere tornò a poppa, a contemplare l'orizzonte.


Altri capitoli:

Capitolo 1: Un nuovo Mondo

Capitolo 2: Broneshoke

Capitolo 3: Il Signore del Sapere

Capitolo 4: Un Lungo Cammino

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